Per i libri di Evelyn Waugh – il grande scrittore
inglese di Ritorno a Brideshead, Declino
e caduta e altri capolavori di eleganza
e sense of humour – bisognerebbe inventare
un genere diverso dal risvolto di copertina
e mettere in guardia il lettore. Prendiamo questa
Autobiografia di un perdigiorno (anno 1964)
per la prima volta tradotta in italiano. Non
aspettiamoci la solita autoglorificazione dello
scrittore di mezz’età: Waugh ci accompagna
prima a conoscere il suo albero genealogico
zeppo di caratteracci e tipi bizzarri, poi passa
a tratteggiare un padre vagamente ostile e una
madre vagamente chioccia, ed ecco infine
il giovane Evelyn così insicuro della propria
vocazione letteraria e così malevolo verso
se stesso da rasentare casomai l’autodiffamazione.
Come scrive Mario Fortunato nella nota che
introduce il volume, “la realtà per Waugh
non è che la nostra fantasia ridotta ai minimi
termini”. Di conseguenza molti personaggi
realmente esistiti – da Harold Acton a Anthony
Powell, Nancy Mitford e tanti altri compagni
a Oxford di una giovinezza scapestrata e parecchio
alcolica, ripercorsa con divertimento e qualche
nostalgia – assumono nomi fittizi e si trasformano
in personaggi romanzeschi imprevedibili
e capricciosi, dando vita a una girandola
di situazioni degne della migliore letteratura
umoristica del Novecento. Perciò in guardia,
lettore: più che un’autobiografia questo libro
è un ritratto dell’artista da farabutto. L’unico
ritratto sincero e spietato che un grande scrittore
come Waugh poteva consegnarci.