Sono le dieci del mattino del 27 maggio 1865.
A Ravenna due manovali trovano per caso una
cassetta di legno. Stanno per gettarla tra le macerie
quando qualcuno nota sul coperchio una scritta:
Dantis Ossa. La scoperta muove una città intera,
e un vortice di persone – assessori, periti, notai,
medici e scienziati – inizia a ruotare attorno a una
sola ossessione: la testa di Dante. Tutti vogliono
sapere perché quel cranio si trovi lì, quale sia
la sua storia e soprattutto il peso del suo cervello.
Per conoscerne la grandezza in realtà bastava
vedere cosa avesse prodotto: la Commedia,
il più bel libro mai scritto dagli uomini. Dante
lo aveva creato attingendo da ciò che aveva vissuto,
rubando saperi, storie e segreti, e lo aveva popolato
di figure per lui familiari, quelle che avevano
respirato la sua stessa aria: Paolo e Francesca,
il conte Ugolino, Farinata, Cavalcanti, Guido
da Montefeltro, Ezzelino e gli altri. Erano tutti
legati. Eppure un mondo così piccolo era diventato
una storia universale.
Come Dante ci sia riuscito rimane un mistero.
Per provare a svelarlo e a sfiorare un brandello
di verità resta forse una sola possibilità: evitare
di guardare lui per guardare ciò che guardò lui.
Prendere quindi gli uomini che attraversarono
la sua iride per distribuirli in una storia. E tentare
così di vivere, con i suoi occhi, le vite degli altri.