Sono le nove di sera del 1° settembre 2020.
Un gruppo di pescherecci sta battendo i fondali
davanti al golfo della Sirte, trentaquattro miglia a
nord di Bengasi: è lì che si trova il gambero rosso,
l’oro per cui i mazaresi lottano da cinquant’anni.
Quella notte il capitano libico che li ha intercettati
farà caccia grossa: alla guida di una ciurma
di corsari che sparano all’impazzata, sequestra
quattro pescherecci e diciotto pescatori e li porta
a Bengasi come prezioso bottino da offrire
al generale Khalifa Haftar.
Da quel momento e per 108 giorni i pescatori
vengono tenuti prigionieri dalle milizie del leader
della Libia Cirenaica, vittime di violenze,
mortificazioni, minacce, finte esecuzioni.
Mentre le autorità italiane rassicurano le famiglie,
un drappello di donne dalla tempra formidabile
combatte per la loro liberazione: sono cristiane,
musulmane, italiane e tunisine, unite da una sola
speranza.
Tra di loro, la più agguerrita è Rosetta Ingargiola,
di settantatré anni. La madre del capitano del
Medinea Piero Marrone – picchiato e messo in
isolamento dopo aver contestato l’accusa dei libici
di essere un trafficante di droga – ha già perso
un figlio in mare. Non vuole perderne un altro.
Il rapporto tra madre e figlio è il filo rosso che lega
tutte le storie di questa vicenda, specchio di un
popolo che vive di pesca e che ha sempre più paura
di mettere la prua in mare verso l’altra sponda
del Mediterraneo. Le storie di Piero e Rosetta,
e delle donne e degli uomini che hanno vissuto
gli interminabili giorni di prigionia, sono le voci
del Mare di mezzo, e ci raccontano l’inganno
di credere che il mare possa tenere lontani
due mondi bagnati dalle stesse acque.