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La Repubblica di Platone è senza dubbio
il più rivoluzionario dei suoi dialoghi e continua
a essere uno dei testi più frequentati della
nostra tradizione. È stato detto che l’intera teoria
politica occidentale, in tutte le sue eterogenee
declinazioni, può essere intesa come derivazione
della posizione platonica della Repubblica o,
alternativamente, della concezione aristotelica
della Politica. Nel bene e nel male, c’è chi – come
Karl Popper – ha visto nel progetto politico
platonico l’archetipo di ogni totalitarismo
(nazismo, comunismo...) e invece chi – come
Hans-Georg Gadamer – vi ha scorto l’ideale
di una teologia politica ispirata alla giustizia.
Nelle pagine di questo intramontabile scritto
batte in effetti il cuore di un progetto
di rinnovamento della polis, centrato sulla
possibilità di un governo di filosofi:
nella prospettiva di Platone, infatti, solo i filosofi,
opportunamente educati e condotti fino
alla conoscenza abbagliante del Bene e del Vero,
possono essere in grado di amministrare in modo
pienamente razionale la polis. Di qui l’esigenza
– il filo rosso del testo platonico – di costruire
una nuova paideia (contro l’antica educazione
greca basata sui modelli omerici) e di pensare
il “paradigma in cielo” della città-giusta, della
kallipolis, in una felice e feconda convergenza
di u-topia ed eu-topia in cui Atene, Sparta e
Siracusa non siano storicamente destinate alla
guerra fratricida, ma possano convivere
e collaborare idealmente in armoniosa concordia.
Nel saggio introduttivo e nel saggio integrativo,
Giovanni Reale presenta la sua nuova
interpretazione dei passaggi metafisici
fondamentali del testo alla luce delle dottrine
non scritte, spiegando come per Platone la vera
conoscenza del Bene, che nello scritto
è presentata allusivamente tramite l’immagine
del Sole, si possa raggiungere pienamente
solo nella dimensione dell’oralità dialettica,
e quindi (per noi lettori) solo con l’ausilio
delle testimonianze indirette su ciò che Platone
non solo scriveva, ma anche insegnava
nella sua Accademia.