All’alba del 1925 il più giovane presidente del
Consiglio d’Italia e del mondo, l’uomo che
si è addossato la colpa dell’omicidio di Matteotti
come se fosse un merito, giace riverso nel suo
pulcioso appartamento-alcova. Benito Mussolini,
il “figlio del secolo” che nel 1919, rovinosamente
sconfitto alle elezioni, sedeva nell’ufficio del Popolo
d’Italia pronto a fronteggiare i suoi nemici, adesso,
vincitore su tutti i fronti, sembra in punto di morte
a causa di un’ulcera che lo azzanna da dentro.
Così si apre il secondo tempo della sciagurata
epopea del fascismo narrato da Scurati con
la costruzione e lo stile del romanzo. M. non è più
raccontato da dentro perché diventa un’entità
distante, “una crisalide del potere che si trasforma
nella farfalla di una solitudine assoluta”. Attorno
a lui gli antichi camerati si sbranano tra loro come
una muta di cani. Il Duce invece diventa
ipermetrope, vuole misurarsi solo con le cose
lontane, con la grande Storia. A dirimere le beghe
tra i gerarchi mette Augusto Turati, tragico nel suo
tentativo di rettitudine; dimentica ogni riconoscenza
verso Margherita Sarfatti; cerca di placare gli ardori
della figlia Edda dandola in sposa a Galeazzo Ciano;
affida a Badoglio e Graziani l’impresa africana,
celebrata dalla retorica dell’immensità delle dune
ma combattuta nella realtà come la più sporca
delle guerre, fino all’orrore dei gas e dei campi
di concentramento. Il cammino di M. Il figlio
del secolo – caso letterario di assoluta originalità
ma anche occasione di una inedita riaccensione
dell’autocoscienza nazionale – prosegue qui in modo
sorprendente, sollevando il velo dell’oblio su persone
e fatti di capitale importanza e sperimentando un
intreccio ancor più ardito tra narrazione e fonti
dell’epoca. Fino al 1932, decennale della rivoluzione:
quando M. fa innalzare l’impressionante, spettrale
sacrario dei martiri fascisti, e più che onorare lutti
passati sembra presagire ecatombi future.