«Mia madre si chiamava Sabina e mi ha partorito
durante la stagione delle piogge. E poiché sono
entrato nel mondo mentre pioveva, il mio secondo
nome è Okoth che significa Pioggia»: quando
Duncan inizia il suo racconto, molte primavere
sono trascorse da quel giorno, e lui è lontano dal
villaggio nella savana del Kenya, da sua madre
scomparsa troppo presto, dalle sorelle che ha
lasciato laggiù, dal fratello che lo ha portato nella
immensa capitale e non ha voluto proteggerlo.
Lontanissimo dai cumuli di immondizia che sono
stati il suo mezzo di sopravvivenza, dai ragazzi
con i quali ha diviso la vita di strada e anche dalla
scuola, a cui si è affidato in cerca di salvezza.
Ora è nel luogo più impensabile dove il destino
potesse condurlo: a Pollenzo, all’“Università di
scienze gastronomiche”, dove ragazzi di tutto
il mondo arrivano per imparare l’arte del cibo.
A condurlo fino a lì è stata la sua straordinaria
tenacia ma anche un incontro: quello con Eugenio,
un italiano arrivato in Kenya per conoscere
la sua figlia adottiva; Duncan ed Eugenio hanno
iniziato a comunicare attraverso i frutti della terra,
coltivati dai ragazzi della scuola di papà Moses
che per anni è stata la famiglia di Duncan, e la
loro amicizia è stata a sua volta come un seme,
destinata a germogliare nel tempo.
Il filo del racconto dipanato con sapienza da Maria
Paola Colombo è fatto di parole: quelle che
Duncan ha cercato, una dopo l’altra, per raccontarsi;
quelle delle lettere che per anni hanno
viaggiato tra la scuola di papà Moses e l’Italia;
quelle di Carlo Petrini che a Duncan raccomanda
di tenere il suo sogno sempre vicino, alla invisibile
tavola dove si gioca il senso della vita. La storia
di questo ragazzino, cresciuto mangiando rifiuti
e approdato dove si studia come moltiplicare il
buon cibo perché nutra tutto il pianeta, racconta
un futuro possibile che tutti noi possiamo contribuire
a costruire, ogni giorno.