“Non c’è luce senza ombra,
così come non c’è gioia senza dolore”
Isabel Allende
“La maturità l’aveva convinto che in nessun modo la vita potesse essere semplice, che in nessun modo fosse possibile evitare delusioni, errori, dolori. Ma dalla sofferenza si poteva guarire questo si, bastava solo credere nella felicità, con la stessa ostinazione con cui Gianluca si risollevava tutte le volte. […] La caduta non era che uno sgambetto della vita. L’importante era tutto il resto, la corsa che lo attendeva. Nonostante avesse dubitato tante volte ora Luca nella felicità aveva deciso di crederci testardamente: valeva sempre la pena di rialzarsi”.
Sono sempre stata affascinata dal concetto michelangiolesco per cui è dalle ombre che viene la luce per separazione: lo scultore non plasma la figura, la libera. La spoglia, con il suo scalpello, della materia grezza e ingombrante, ed è scavando coni d’ombra, gole scure, che incide la figura donandole profondità, che trasforma la fredda roccia in carne viva. Così Roberta Recchia, come un moderno Michelangelo letterario, estrae, dalle ombre di una vicenda tragica e crudele, una felicità sfavillante ma conquistata faticosamente, attraverso dei personaggi con una tensione umana unica. Dopo aver incantato 150.000 lettori con Tutta la vita che resta, torna con un nuovo titolo Io che ti ho voluto così bene, dove rovescia la prospettiva, permettendoci di conoscere un giovane Luca, che non ha neanche quattordici anni, vittima di una vicenda dov’è coinvolto il fratello: quando i carabinieri busseranno alla porta di casa Nardulli, la verità travolgerà non solo lui e la sua famiglia, ma anche la famiglia dello zio che lo accoglierà, la sua fidanzatina e tutti coloro che anche solo lo sfioreranno. La colpa sarà un marchio che li stigmatizzerà tutti per anni, verranno giudicati, esclusi e danneggiati nella vita e nel lavoro, scaverà, dentro di loro e tra di loro, vuoti apparentemente incolmabili. Finché non esploderà l’amore. L’amore sarà l’ago sapiente con cui, l’abile autrice, ricucirà gli strappi che le colpe e la vita provocano tra suoi personaggi: a volte saranno teneri sguardi fraterni alla stazione che scalderanno più di un abbraccio. Altre volte sarà la voce tenera della fidanzata che pacifica dal rimorso, perché lei saprà capire anche ciò che non è stato detto. Uno zio che, spinto dalla giustezza delle sue intenzioni, sarà disposto a lasciare tutto per divenire “casa” di suo nipote. Infine sarà un vecchio prete, capace di ascoltare anche ciò che non abbiamo il coraggio di rivelare a noi stessi.
I personaggi che Roberta Recchia presenta nel suo libro non potranno che accompagnarvi per giorni: come snocciolasse un rosario facendo scorrere i grani tra le dita, dedica il giusto tempo ad ogni soggetto, per poi posizionarlo nella storia in modo da stimolare tutta la nostra curiosità. L’autrice appoggia la mano sulla nostra spalla e ci accompagna nella tetra foresta delle colpe e dei rimpianti, in una prospettiva rovesciata, coraggiosa e avvincente, ci mostra molteplici punti di vista senza permetterci di capire quale potrebbe essere il finale. Ed è proprio in quel momento che arriva la felicità, mai banale o sdolcinata, mai chiassosa o esuberante, ma quella timida e tenue, come il tiepido sole primaverile, che fa nascere un sorriso tra le guance quando ci accarezza. Sia lei che Michelangelo ci insegnano che sono le nostre ombre a sagomare la nostra luce, senza di loro avremmo contorni indistinti, non ci sarebbe profondità, senza ombre la luce non sarebbe tale.
Giulia, Giunti al Punto Arezzo
“La maturità l’aveva convinto che in nessun modo la vita potesse essere semplice, che in nessun modo fosse possibile evitare delusioni, errori, dolori. Ma dalla sofferenza si poteva guarire questo si, bastava solo credere nella felicità, con la stessa ostinazione con cui Gianluca si risollevava tutte le volte. […] La caduta non era che uno sgambetto della vita. L’importante era tutto il resto, la corsa che lo attendeva. Nonostante avesse dubitato tante volte ora Luca nella felicità aveva deciso di crederci testardamente: valeva sempre la pena di rialzarsi”.