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Recensione "Col buio me la vedo io",  Anna Malammo

Un viaggio nelle pieghe oscure dell'animo umano, tra senso di colpa, desiderio di giustizia e il peso insostenibile del silenzio. Ambientata a Reggio Calabria, questa storia intreccia un fatto di cronaca nera con la fragilità di una ragazza che si affaccia alla vita adulta portandosi addosso ferite troppo grandi per la sua età.


Lucia Carbone è una giovane studentessa al Liceo Classico. La sua vita è segnata dall'omicidio irrisolto della zia Maria, un delitto inspiegabile e brutale, rimasto avvolto nell'omertà della gente del paese, così come della famiglia stessa. Lucia ha però fame di verità e giustizia. Di vendetta. Una fame che la spingerà a compiere un gesto estremo: il sequestro di Rosario Cristallo, figlio di una potente famiglia criminale, che potrebbe sapere qualcosa in merito a quella drammatica vicenda.


L'autrice ha la capacità di rendere palpabile il conflitto interiore di una ragazza che, pur vivendo la sua quotidianità — la scuola, gli amici, i primi amori — resta inchiodata al peso di quel segreto tenuto nascosto in uno scantinato della vecchia casa della nonna.


Con una scrittura poetica ed evocativa, l'autrice costruisce un romanzo che ricorda per intensità e tematiche "L’età fragile" di Donatella Di Pietrantonio, lasciando il lettore attonito e desideroso di venire a capo della verità per anni sotterrata e taciuta.


"Col buio me la vedo io" è una storia di ribellione, un racconto sulla perdita dell'innocenza e sul prezzo che si paga per inseguire la verità in un mondo che preferirebbe soltanto dimenticare.

 

Ilaria, libraia Giunti al Punto Corigliano Calabro

Anna Mallamo
Lucia ha sedici anni e un cognome – Carbone – che spegne il suo nome, «come il nero e la luce, come la rabbia e l’amore». Del resto, ogni cosa sembra presentarsi doppia ai suoi occhi: maschile e femminile, ad esempio, o corpo e mente. E, soprattutto, il mondo di sopra, quello che abita ogni giorno con la sua famiglia, e il mondo di sotto: la buia cantina in cui ha rinchiuso Rosario dopo averlo rapito. In questo libro magnetico tutto è imprevedibile, perché tutto, proprio tutto, matura nell’immaginario di un’autrice che ha molto da dire e un modo originalissimo per farlo. Reggio Calabria, primi anni Ottanta. La sedicenne Lucia Carbone, studentessa del liceo classico, sequestra un compagno di scuola e lo imprigiona nello scantinato della casa della nonna morta da pochi mesi. Il ragazzo, Rosario Cristallo, è figlio d’un boss dell’Aspromonte, e Lucia lo ha rapito per due buone (o cattive) ragioni: la prima è che la sua migliore amica ne è innamorata, e vuole tenerlo lontano da lei, la seconda è che forse Rosario sa qualcosa sull’assassinio di una zia amatissima. Mentre fa visita ogni giorno al suo prigioniero, la vita di Lucia prosegue apparentemente come al solito: in famiglia – col padre, la madre e il fratellino Gedo –, nel quartiere e a scuola, dove Lucia si innamora di Carmine, un ragazzo dei quartieri alti. Reggio, intanto, città ferita che esce dalla prima guerra di ’ndrangheta, è teatro degli scontri tra il Fronte della Gioventù e il Collettivo studentesco: c’è una sorta di violenza diffusa, che prende strade diverse. E la violenza è anche nei gesti quotidiani di Lucia, e nelle cose, ad esempio in quel coltello rosso che si ritrova tra le mani quando scende nel mondo di sotto, dove c’è il suo segreto. Fino a quando ogni cosa si capovolge, il sopra e il sotto si confondono come tutti gli opposti, e lei matura una decisione inaspettata. “Col buio me la vedo io” è un romanzo che costruisce un universo a poco a poco, con forza, coerenza e una fantasia sbalorditiva, ricco di pagine da incorniciare, come quelle in cui una madre e una figlia piegano le lenzuola calibrando i gesti in una sorta di duello western. Ed è anche un libro sulla giustizia e sul Sud lontanissimo da tutti i clichés: quando usa il dialetto (sempre con parsimonia) non è mai per un effetto di colore ma per cercare a tentoni l’unico senso possibile. Perché il dialetto si può usare «per schermare o per chiarire, è la lingua dei grandi, funziona in tutti e due i modi». E il cibo è soprattutto uno strumento di potere e di controllo: «Se ti sfamo sei salvo, e sei mio». Il modo che ha Anna Mallamo, concreto e immaginifico insieme, di ruotare intorno ad alcuni temi – famiglia, verità, donna, confine, casa –, riaggiornando via via le definizioni nel corso della storia, vi resterà a lungo addosso.
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Tutta la casa è piena di parole: dietro i battiscopa, sugli stipiti, sotto i tavolini, nelle fessure tra le mattonelle. Eppure è piena di spazio vuoto, dove non si propagano rumori né voci, dove nessuno si avvicina a nessuno, nessuno manca a nessuno. La famiglia è un sistema di pieni e di vuoti, di presenza e mancanze, tutti assieme, nello stesso momento, nelle stesse persone.