Uvaspina lo ami da subito, anche se a tratti fa male, tanto. Sono pagine colme di dolore, amore, delusione, abbandono, depressione, pazzia, solitudine, ma anche conforto, desiderio, speranza, rivalsa, resilienza, accettazione.
Una scrittura tagliente, cruda, diretta, ma mai volgare. Bisogna prendersi del tempo mentre lo si legge perché il dolore è forte, ma necessario. È come uno schiaffo in pieno viso: all’inizio fa male ma poco dopo senti un bruciore quasi piacevole, che scalda e conforta come una carezza.
Sullo sfondo una Napoli feroce e al contempo amorevole, Palazzo Donn’Anna, Posillipo e il mare, sì il mare che come una madre ti avvolge e assorbe lacrime e dolori, risana le ferite (sulla pelle e nell’animo) che bruciano. Il mare che prende, risucchia, affonda, ti trascina giù. Il mare che diventa una possibilità di rinascita, di incontro, scoperta, di amore.
È a Napoli che vive Carmine Riccio, nato con una macchia sotto l’occhio sinistro che ricorda l’uva spina (da qui il soprannome). Un ragazzo dolce e paziente che ogni mercoledì insieme alla sorella Minuccia vede la madre, Graziella La Spaiata, morire per poi risorgere. Uvaspina ha tredici anni quando capisce che la sorella è uno strummolo, che gira, gira e gira e risucchia tutto.
“Quando Minuccia si inceppava non bastava tirare lo spago o la cordicella perché, proprio come lo strummolo lei iniziava a girare all’impazzata, e nella sua traiettoria lei diventava un asso piglia tutto, faceva il gioco della scopa d’assi e della smorfia”. Ciò che amava di più era spremere Uvaspina, quasi le provocasse piacere. Stringeva forte, con le parole, con gli occhi con le mani e provava sollievo.
Minuccia e Uvaspina, odio e amore, irrequietezza e pacatezza, due vite parallele destinate a sovrapporsi.
Questa non è solo la storia di Uvaspina, del dolore e della crudeltà del destino che si è accanito contro di lui, che l’amore credeva di non meritarlo.
È la storia di Minuccia che intreccia il suo dolore a quello del fratello: due anime segnate che vorrebbero essere distanti ma non possono fare a meno dell’altro.
È la storia de La Spaiata, che nella vita ha cercato di salire tanto in alto solo per cadere.
È la storia di Pasquale, codardo che avrebbe potuto cambiare le sorti della sua famiglia.
È la storia di Antonio, che insegna l’amore, quello vero, carnale, passionale, ma anche l’amarezza dell’abbandono.
È la storia di tutti noi, che ci ritroviamo in tutti loro con l’augurio, però, di avere la forza di Uvaspina: di rinascere dal dolore e la capacità di amare anche quando sembra impossibile.
Ester, libraia Giunti al Punto di Corigliano Calabro
L’uvaspina non era un’uva che poteva essere pestata per farne del vino, era soltanto una bacca che serviva per guarire e sopportare i dolori degli altri. Uvaspina accettò di essere un frutto, un frutto buono non soltanto a essere strizzato, non soltanto a curare i dolori dell’altra gente.